Sabato 2 aprile, alle ore 18'00, il C.R.A. Centro Raccolta Arte (Ex torre degli stipendiari - via Conti, San Miniato), ospiterà l'artista Giovanna Lacedra, che proporrà a tutti gli intervenuti la sua performance liberamente tratta dalla poesia "L'Aspirante" dell'autrice americana Sylvia Plath.
Un evento eccezionale per l'Associazione che invita tutti sin da ora a segnare sulla propria agenda questo appuntamento...
Ingresso libero
info centroraccoltaarte@libero.it
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L’ASPIRANTE
Un progetto di
Giovanna Lacedra
Performers: Giovanna
Lacedra e Roberto Milani
“Io sono legata a te
indipendentemente dalla mia volontà, anche se
quando ho promesso a me
stessa di vivere per te non sapevo
che sarei stata ferita, ferita, ferita per
l’eternità…”
[Sylvia
Plath – DIARI – 6 marzo 1956]
Cosa accade se il cuore di porcellana che racchiude un amore
perfetto, all’improvviso si frantuma?
Qualche volta sono grida. Altre volte è silenzio.
Perché nessuno. Nessuno deve sapere.
Si tace nella gioia. Si tace nel dolore. Si tace il dolore di non aver mai
vissuto.
Alle
privatissime pagine dei suoi “Diari”, Sylvia Plath – poetessa americana
del filone Confessional – confidava il timore di cadere nella trappola di una
unione matrimoniale che, attraverso l’adempimento passivo ad un ruolo servile, avrebbe
potuto costarle il caro prezzo delle proprie velleità, della propria identità e
della propria dignità.
“L’ASPIRANTE” Performance nasce da una riflessione sulla prevaricazione
di genere – psicologica, intellettuale, economica, sessuale, fisica – usata sulle donne e subita da queste ultime,
a tutt’oggi, in fragilissimo silenzio. È frutto di una reinterpretazione in
chiave contemporanea della omonima poesia, scritta dalla Plath nell’autunno del
1962, subito dopo il fallimento del suo matrimonio con il
poeta Ted Hughes. Sylvia lo adorava ma si sentiva in qualche modo a lui
inferiore. Senza Ted non riusciva a vivere, lo amava follemente e ne era soggiogata.
Lui infedele, lei profondamente gelosa. Non sapeva separarsene, eppure sentiva
che la sua dedizione e il successo di lui la bloccavano nella sua attività di
scrittrice: non riusciva a creare, strappava, appallottolava pagine e annullava
idee. Mentre lui creava e pubblicava, lei rallentava. Invece di dedicarsi alla
scrittura si occupava della casa, dei bambini, di fare dolci, pulire la cucina,
riordinare la casa, portargli la posta, battere a macchina i suoi versi,
iscriverlo a concorsi di poesia. Lo aiutava a brillare, spegnendo se stessa
ogni giorno di più. Poi lui la lasciò. E fu buio. Fu silenzio. Fu tagliente
poesia.
Quel blocco creativo e quella
perdita di identità che l'avevano asserragliata e indotta ad una sorta di apnea
depressiva, si tramutarono, in seguito alla separazione, in un getto inaspettato
di versi e liriche. Quasi come se l’abbandono fosse stato una sorta di emancipazione.
Quell'autunno, infatti Sylvia partorì la sua più celebre raccolta di poesie, “Ariel”,
di cui L’Aspirante fa parte. "Sono
una scrittrice geniale, ora lo so. Me lo sento, sto scrivendo le poesie più
belle di tutta la mia vita, mi renderanno famosa...", scrisse a sua
madre il 16 ottobre 1962. Sentiva di essersi liberata da una violenza molto più
sottile e affilata delle percosse. Una violenza intima, psicologica, emotiva e
incessante. Quella di una quotidianità fatta di parole smarrite o acuminate. E
in cui viveva una condizione di passiva sudditanza. Nonostante questo, l'11
febbraio 1963 Sylvia Plath si suicidò. Aveva appena trentun anni.
I versi della poesia da cui
prende il nome questa performance raccontano di una donna funzionale all'uomo,
una donna manichino, una donna comoda, che sa fare ciò che serve, che ha i
requisiti per essere in quel ruolo che Sylvia aveva sempre temuto e del quale
alla fine era diventata prigioniera. L'aspirante è una donna schiava di un sogno
infranto, una donna tutta devota all'uomo, a lui funzionale, da lui dipendente,
incastonata in un ruolo di sudditanza che la rende servile, nullificandola in
pieno.
Nessuna donna deve dipendere da un uomo. Mai.
L’aspirante
Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l’hai?
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia.
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma,
Rattoppi o qualcosa che manca? Ah
No? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una mano
Che la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
E a fare ogni cosa che gli dirai,
La vorresti sposare?
E’ garantita,
Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore,
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme –
Un po’ rigido e nero, ma niente male,
Lo vorresti sposare?
E’ impensabile, in frantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile
Credi a me, ti ci farai sotterrare.
E adesso, scusa, hai vuota la testa
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci fuori dal guscio.
Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca.
Ma in venticinque anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare,
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare.
E funziona, non ha una magagna,
Qua c’è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?
Sylvia Plath
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